Il mondo sommerso delle finte partite IVA
Pubblicato su CheFare il 20 aprile 2020
Dentro al quadro di un’Italia alle prese con una pandemia che sta debilitando il Paese sotto molteplici punti di vista, una categoria di lavoratori poco nota e tuttavia piuttosto diffusa si ritrova ad affrontare difficoltà vecchie e nuove. Mi riferisco all’esercito di architetti e avvocati, “assunti” a partita IVA come condizione di fatto, i quali oggi, oltre a rischiare il posto di lavoro a causa della forte crisi che senza dubbio investirà tutto l’Occidente e non solo, sono costretti a confrontarsi con il meccanismo classista e parassitario che caratterizza l’ambiente dell’architettura e dell’avvocatura in Italia.
Buona parte dei lavoratori di queste due categorie (e di altre che purtroppo conosco meno) è infatti implicata in rapporti di lavoro di fatto subordinati, senza che tuttavia siano formalizzati come tali. Tra le due scelte possibili ed entrambe legittime – ovvero il contratto di lavoro dipendente e la possibilità di avvalersi di collaborazioni occasionali (e come tali formalizzate e gestite) con liberi professionisti – si è fatta strada negli studi professionali questa terza soluzione, che garantisce l’effetto “a fisarmonica” dell’organico in cambio della precarizzazione dello staff, con l’avallo della legge che esclude dalla presunzione di lavoro subordinato – senza ragioni spiegabili – gli iscritti agli albi professionali.La flessibilità della dimensione degli studi, variabile in base al numero di incarichi in corso, diventa così il motore di una prassi che rende immune lo studio professionale dalle eventuali crisi in cui può incappare. Il fantomatico rischio d’impresa, a partire dalla crisi del 2008, risulta sostanzialmente accantonato in cambio della precarizzazione di quasi tutti i lavoratori nell’ambito dell’architettura e dell’avvocatura.
Tuttavia, da allora la situazione è piuttosto cambiata: i fatturati degli studi professionali sono liberamente consultabili, anche attraverso graduatorie annuali che mostrano cifre esorbitanti per alcuni di loro. La cosa sorprendente è che spesso sono proprio gli studi in cima alle graduatorie quelli più inclini allo sfruttamento dei collaboratori, sia per la folle quantità di ore di lavoro svolte, sia per la miseria economica che viene loro imposta.
Il risultato è una massa straordinariamente numerosa di architetti e avvocati privi di diritti, alle prese con la gestione fiscale del lavoro autonomo, intimati – verbalmente – ad essere presenti in studio negli orari di apertura dell’ufficio stesso (spesso i collaboratori stessi vengono dotati di chiavi per poter essere autonomi nell’apertura in giorni festivi o nella chiusura in orari notturni), privi di un contratto di collaborazione, di una lettera di incarico, di qualunque forma di accordo scritto, senza avere chiaro se le ferie si maturino e siano retribuite, se lo studio chiuda per il ponte del primo maggio o nelle settimane centrali di agosto, senza avere idea di cosa implicherebbe un infortunio, un periodo di malattia o addirittura una gravidanza.
Tutto questo in cambio del pagamento di fatture mensili per l’ammontare di cifre che si aggirano tra i 500€ e i 2000€. Bisognerebbe poi fare due conti su queste cifre, perché pur nella migliore delle ipotesi in cui si riesca a fatturare 2000€ al mese (e questi casi sono davvero rari, per lo meno nell’ambito dell’architettura; si può dire che in media le fatture ammontino a 1000-1300€), si tratta di meno di 1500€ netti (nell’ipotesi di regime forfettario, altrimenti parliamo di circa 1200€, escluso il costo del commercialista), senza nulla più di quella cifra. Stiamo parlando di professionisti che guadagnano meno di impiegati non specializzati e non hanno alcuna tutela.
Come se tutto ciò non fosse sufficiente, dal momento in cui anche Inarcassa e Cassa Forense hanno scelto di concedere un bonus di 600€ ai loro iscritti con fatturato inferiore a 35-50.000 euro, diverse testimonianze dirette hanno raccontato che gli studi professionali per cui prestano collaborazione full time hanno chiesto loro di emettere la fattura di marzo decurtata di 600€, a parità di ore lavorate rispetto agli altri mesi dell’anno, “perché tanto ve li dà Inarcassa/Cassa Forense”: in fondo perché non approfittare di un risparmio così cospicuo? C’è addirittura chi, a fronte di un rifiuto, ha imposto una negoziazione affinché il collaboratore non fosse l’unico a “guadagnare” dall’attuale pandemia.
[…] Continua a leggere su CheFare