Nel futuro di CityLife – il più pubblicizzato e chiacchierato tra i progetti in fase di realizzazione per Milano in vista dell’Expo 2015, firmato dalle “stelle” dell’architettura internazionale Zaha Hadid, Arata Isozaki e Daniel Libeskind, affiancati fino a poco tempo fa dal torinese Pier Paolo Maggiora – vi è l’incertezza tipica della fase attuale della vita milanese. Tale incertezza si lascia riscontrare soprattutto nel progetto – o nel non-progetto – dello spazio pubblico dell’ex-area fiera, ovvero in quella parte del vasto intervento (in buona parte destinato ad uso privato e concepito in modo elitario) di cui tutti i cittadini dovrebbero poter “usufruire” liberamente. “I servizi dopotutto” sembra essere il motto dei grandi investimenti immobiliari – ma si potrebbe persino dire: “la progettazionedei servizi dopo tutto”.
Dal 2004 CityLife offre l’ormai nota selezione di immagini del progetto: renderingdi case di “lusso” in un’area che bandisce il traffico veicolare al proprio interno (evitando in tal modo di porsi le storiche problematiche di viabilità della zona), dotata di un “parco urbano” vigilato 24 ore su 24, tre grattacieli “vertiginosi” che ambiscono a una magnificata internazionalità, una grande piazza rialzata con gallerie commerciali per negozi di alta moda e ristoranti di adeguato livello, il MAC (Museo di Arte Contemporanea) e infine il Palazzo delle Scintille che ospiterà il MUBA (Museo del Bambino). Queste immagini però non approfondiscono l’idea, come la campagna di commercializzazione la definisce, di un “nuovo modo di vivere la città”: l’immaginario riporta in maniera preoccupante al modello delle gated communities.
Il concorso si conclude a luglio del 2004 e a oggi solo parte degli edifici è stata realmente progettata. In modo facilmente prevedibile, CityLife si sta costruendo a partire dai lotti privati, nella fattispecie le residenze di Hadid e Libeskind, vendute a partire da 8.000 € al mq fino a 13.000 € degli attici, mentre non è stato previsto alcun intervento di edilizia convenzionata. In tali residenze il tema dell’abitare è stato elaborato in maniera estremamente superficiale: case di cui si enfatizza il basso impatto ambientale, ma dall’impatto paesaggistico devastante; dotate di impianti di alta tecnologia e domotica, ma distribuite internamente in maniera niente affatto innovativa. A riprova di ciò, la progettazione degli appartamenti ha dovuto essere ri-affidata a diversi architetti “locali” per renderli vendibili.
In quanto al cuore dell’intervento – i tre famigerati grattacieli –, le note non sono meno dolenti. Entro la fine dell’anno dovrebbero nascere le fondamenta di quello di Isozaki, mentre dei grattacieli di Libeskind e Hadid (il cui termine lavori è fissato per il 2014) non vi è invece alcuna certezza: la “flessibilità” dell’architettura contemporanea – e dell’amministrazione pubblica – consente infatti disinvolti cambi di destinazione funzionale, come se ciò non avesse alcuna rilevanza a livello di impatto sociale, e un edificio originariamente destinato al terziario potesse indifferentemente accogliere residenze mantenendo inalterati il suo aspetto estetico e il suo ruolo urbano.
Le gallerie commerciali, ai piedi della torre di Zaha Hadid, in “Montenapoleone style”, saranno in buona parte interrate, in modo tale da risparmiare terreno e mantenere così l’indice di edificabilità a 1,15mq/mq. Astuti espedienti per “arrangiare” il progetto – niente di nuovo nell’Italia del “pizza, amore e mandolino”.
Ma cosa sarà del resto dell’area pubblica? Andiamo con ordine:
1) il cosiddetto “podio”, di 32.500 mq, posizionato in modo estremamente banale al centro dell’area d’intervento, e rialzato di circa cinque metri rispetto al parco e al tessuto circostante, è uno spazio definito nei disegni da un contorno frammentato e da un vasto vuoto pavimentato punteggiato da un convenzionale arredo urbano e una coppia di scale che dà accesso alla metropolitana. La noncuranza con cui è trattato questo podio è dimostrata dai disegni delle sezioni dell’area consegnate in Comune che, in maniera palesemente erronea, non prevedono dislivelli. Ma più in generale, la scelta progettuale di elevare l’enorme piazza circondata dai tre grattacieli che ricorda La Défense, sembra non essere stata soppesata con la dovuta attenzione, come se l’intero podio non costituisse una significativa barriera architettonica.
2) Inizialmente concepito come museo del design, e poi indifferentemente utilizzato per un altro tipo di esposizione, il MAC di Libeskind si offre alla città come un oggetto – nemmeno troppo squisito – senza alcuna chiara relazione con l’intervento di CityLife, e tantomeno con la città. Da costruire con gli oneri di urbanizzazione dell’intervento (38 milioni di euro invece dei 20 preventivati per il museo del design, nonostante il progetto sia lo stesso), l’edificio sarà costituito da 18000 mq distribuiti su cinque piani, dei quali solo due piani saranno dedicati all’esposizione permanente di opere di arte contemporanea. La restante superficie sarà occupata da attività di altro genere: terme, bookshop, ristoranti, auditorium, sale conferenze, atelier per artisti, laboratori per bambini ecc. Il tutto finanziato dal Comune.
3) la foglia di fico del progetto, ciò che rende fattibile ogni cosa nella Milano d’oggi, il parco s’insinua nei ritagli di spazio tra gli edifici: 150.400 mq, di cui 36.500 mq sovrastanti i parcheggi, la metropolitana e una strada interrata privata che attraversa tutta l’area da est a ovest. Della metratura totale, 57.800 mq di parco non fanno parte dell’area del PII e sono invece situati su un’area ceduta da Fondazione Fiera al Comune di Milano nel 2008, liberando così CityLife dal vincolo del bando di concorso che richiedeva come standard urbanistico il 50% dell’area di trasformazione da destinare a verde e spazi pubblici.
I limiti del parco (“il nuovo Central Park di Milano”, come sosteneva Gabriele Albertini, allora sindaco e grande sostenitore del progetto) disegnano un contorno sfilacciato che crea molteplici spazi interstiziali e una compattezza formale ridotta al minimo. Buona parte del verde a sud dell’area sarà posizionata intorno agli edifici residenziali alti da otto a tredici piani, ricevendo così un’ombra incombente durante tutto l’anno. I percorsi tracciati nel verde creano un effetto “shanghai”: linee libere nello spazio, senza un minimo di logica, dove al centro un suggestivo semicerchio d’acqua si materializza in una versione per poi svanire silenziosamente in quella successiva.
Ben sei anni dopo l’assegnazione del progetto dell’area, il parco viene messo a concorso da CityLife: indetto nella speranza di zittire l’Ordine degli Architetti di Milano che protesta perché nulla viene più messo a gara ma attribuito per assegnazione diretta, il concorso si configura come una selezione tra nomi invitati (cinque dal Comune e tre da CityLife); l’esito sarà basato sul curriculum. Quale gara, dunque?
4) lo storico padiglione 3, ex-Palazzo dello Sport del 1922 firmato dall’architetto Paolo Vietti-Violi, viene recuperato da CityLife e diventa il “Palazzo delle Scintille” che ospiterà il MUBA. Dal sito di CityLife si può leggere la descrizione dell’intervento: «all’interno del Palazzo saranno facilmente accessibili ai bambini e alle famiglie del territorio mostre-gioco, uno spazio dedicato all’educazione interculturale, aule attrezzate per laboratori creativi che utilizzeranno suoni, immagini e materiali, un auditorium e una biblioteca per bambini e ragazzi». Il programma si commenta da sé; manca però ancora il progetto, e del resto anche il progettista.
Il timore di una nuova Santa Giulia, o di un intervento che si limita ai soli spazi privati, è lecito: ciò che è maggiormente criticabile è proprio la genericità che pervade programmaticamente le parti di progetto che dovrebbero costituire il collante con la città, quelle parti che non garantiscono un introito ai privati e che proprio per questo vengono lasciate in secondo piano. Del resto, a Milano non solo i nuovi progetti non scaturiscono da una concezione di ampio respiro, ma al tempo stesso i singoli interventi si frammentano in microaree, lotti circoscritti che lasciano una grande flessibilità di mutazione al Programma Integrato di Intervento, senza garanzie sui risultati.
Sarà a causa delle modalità di gestione della città contemporanea, sarà a causa di una società sempre più succube alle richieste dei privati: quel che è certo è che il mero interesse e l’estrema volubilità di tali investimenti, gestiti ormai solo da banche e da società assicurative che non hanno minimamente a cuore il bene collettivo, sta portando al fallimento del pensiero della città come luogo condiviso, lasciando al suo posto una città in vendita, in cui le amministrazioni pubbliche approvano qualsiasi proposta senza eccepire, accontentandosi al più di qualche standard urbanistico, o del suo equivalente monetario.
pubblicato in Gizmo, MMX Architettura zona critica, a cura di Marco Biraghi, Silvia Micheli, Gabriella Lo Ricco, Emanuela Zandonai Editore srl, Rovereto 2010, pp. 98-104, ISBN: 9788895538563