Quando ero studentessa alla facoltà di architettura (fino a pochi anni fa in realtà) mi sono spesso domandata sulla base di quali meriti a un docente di progettazione architettonica fosse concesso di avanzare nel proprio percorso accademico, secondo quali parametri fosse stato deciso il suo ruolo all’interno dell’università.
E me lo domandavo perché ero sconcertata dalle modalità di insegnamento di questa disciplina: pura astrazione cartografica a seguito di un’infinita analisi sui catasti storici, alla ricerca del senso di un progetto che solo mesi dopo l’inizio del corso cominciava timidamente a comparire sul foglio per concludersi a un livello di definizione 1:200, senza approfondimenti (realistici) di dettagli, strutture, normative, definito solo nei suoi volumi e vagamente nei principali materiali (“ecco, questo blocco è in mattoni a vista e questo è intonacato”); in linea di massima si riteneva determinante definire il carattere del progetto e instaurare un (dubbio) rapporto con il contesto e con la sua storia, rapporto comprovato dalla riproposizione di una certa tipologia edilizia (per esempio la casa a ballatoio o l’edificio a corte) posizionata nel tessuto urbano secondo un certo orientamento, magari proprio quello delle centuriazioni romane (oggi quasi illeggibile nei tracciati). Tutto il resto, vale a dire ogni aspetto tecnico della disciplina, non veniva quasi mai contemplato all’interno dei laboratori di progettazione.
La maggior parte delle volte, inconsapevolmente, mi sono posta questa domanda in riferimento a docenti iper strutturati, tendenzialmente ordinari che, a mia memoria, non risultavano essere autori di libri fondamentali per la cultura architettonica in genere, né si presentavano come progettisti di opere architettoniche indimenticabili o determinanti (o anche solo interessanti).
In certi casi, soprattutto quando ho avuto la sfortuna di incrociare docenti afferenti a quella disciplina che loro stessi – non a caso – preferiscono chiamare “composizione architettonica”, ho provato ad approfondire la ricerca dei loro titoli ed effettivamente, relativamente a posizioni assolutamente dominanti all’interno di alcune facoltà, non ho riscontrato pubblicazioni significative risalenti agli ultimi trent’anni e ho – senza particolare stupore – scoperto che non hanno costruito/progettato proprio niente di rilevante.
Sarà pure una domanda ingenua, ma la verità è che una risposta chiara non mi è mai stata fornita. Anche perché buona parte degli ordinari, qualcuno poi mi spiegò, ha “vinto” il posto attraverso concorsi ad hoc – soprattutto nei favolosi anni Ottanta – o, come dice Scolari, sulla base del l’era semper chi, per cui un posto gli spettava “di diritto”.
Dato che oggi i posti da strutturato in università non vengono più dispensati con tanta nonchalance a causa della crisi economica che ha colpito anche gli atenei, immagino che le cose siano un po’ cambiate nell’assegnazione dei posti. E dunque immagino che i candidati vengano valutati sulla base di qualcosa. Ma cosa?
Non avendo capito questo punto specifico, che cosa in sostanza le commissioni ai concorsi valutassero per poi decidere di assegnare un posto da associato o ordinario ai candidati alla disciplina progettuale, ho continuato a pormi la stessa domanda: come viene valutato un potenziale docente dell’area disciplinare icar 14? Sulla base di cosa viene ritenuto “abile” all’insegnamento della progettazione architettonica? È dunque irrilevante se costui non ha nemmeno idea di cosa succeda in un cantiere? È dunque superfluo che costui non si sia mai confrontato con un progetto reale e allo stesso tempo con le responsabilità che comporta il lavoro dell’architetto?
Davvero? Ma quindi questi accademici cosa insegnano? Quando racconto ai miei amici non-architetti che all’interno della facoltà di architettura non ci sono architetti veri, questi faticano a credermi. Come dar loro torto?
Qualcuno potrebbe obiettare che la produzione professionale sarebbe pur sempre opinabile, oppure che tutti gli architetti allora dovrebbero essere abilitati all’insegnamento. Al contrario di queste possibili contestazioni, credo che i meriti per le capacità di un professionista siano obiettivamente riconoscibili sulla base di alcuni risultati che non si limitano al gusto, bensì al numero e alla qualità delle pubblicazioni dei loro progetti, all’esistenza di eventuali monografie a loro dedicate, alla riconoscibilità di un percorso di ricerca espresso nella pratica professionale, e così via.
Invece la pratica del mestiere continua ad essere un aspetto sottovalutato, anzi spesso è una nota di demerito per i candidati perché segno di possibile “noncuranza” nei confronti dell’impegno accademico (aspetto sottoscritto dalla Legge Gelmini che impedisce – io credo giustamente – di praticare la professione agli accademici strutturati full-time). Prova ne sono le valutazioni del concorso nazionale delle abilitazioni di prima e seconda fascia per questa disciplina, che proprio in questi giorni sono state pubblicate sul sito dell’ASN (Abilitazione Scientifica Nazionale).
Proprio dando lettura di molte delle valutazioni espresse dalla commissione – tutte disponibili sul sito – emergono aspetti anche condivisibili, il più delle volte, come ad esempio la positiva valutazione nel caso in cui un candidato abbia sviluppato un pensiero autonomo sull’architettura, o abbia prodotto pubblicazioni originali, o abbia partecipato a convegni nazionali e internazionali.
Dopodiché è interessante notare come a seconda dei candidati gli stessi aspetti vengano valutati diversamente oppure addirittura non considerati; i giudizi sono spesso generici e sembrano frutto o di una mega-cospirazione alle spalle o degli umori dei commissari: se per qualcuno l’aver sviluppato pochi temi approfonditamente risulta motivo di esclusione perché “troppo ossessionato”, per altri l’aver sviluppato vari temi è sintomo di “schizofrenia”; se per qualcuno si segnala il demerito di non aver sviluppato un proprio pensiero sull’architettura, per altri – noti “allievi” e guarda caso poi abilitati – non se ne fa cenno. Il linguaggio dei commissari è spesso volgare (“la candidata non è scema”) e le valutazioni paiono opinionistiche anziché scientifiche. A volte a seguito di un giudizio totalmente positivo, per esempio, segue insensatamente il responso “non abilitato”.
Ma al di là di questo, il vero problema è che il criterio di valutazione dei candidati è sostanzialmente lo stesso che si sarebbe applicato al settore disciplinare storico-critico: tant’è vero che un noto candidato, critico e storico dell’architettura che è professore associato di storia dell’architettura, risulta abilitato in prima fascia come icar 14. Ma per quale ragione? Nel suo curriculum non c’è un solo progetto, nè vero né finto – né di concorso, né accademico. È come dire che non c’è differenza tra le due discipline! Eppure la differenza è sostanziale, e mi sembra logico sostenere che una persona con un curriculum da storico vada semplicemente abilitato nel suo settore.
Personalmente, dopo averci a lungo pensato, mi sono fatta un’idea dei criteri di valutazione che bisognerebbe utilizzare in questo ambito disciplinare, e credo che per rendere questi concorsi degni di essere definiti scientifici sia necessario considerare quattro aspetti: la produzione progettuale in ambito professionale – realizzata e non, considerando le classificazioni ai concorsi e i riconoscimenti di vario genere; la ricerca didattica affrontata all’interno dei corsi universitari con gli studenti – eventuali pubblicazioni dei progetti didattici – temi di ricerca affrontati – metodi di applicazione; le (eventuali) pubblicazioni di teoria dell’architettura nelle quali venga espresso un proprio pensiero sull’architettura; le curatele di mostre, esperienze accademiche all’estero, partecipazioni a convegni, riconoscimenti di vario genere.
Non mi pare surreale come proposta: se uno non ha costruito niente, si richiede abbia almeno partecipato a concorsi e sviluppato una propria idea sull’architettura, scritta nera su bianco e pubblicata, oltre a un’intensa attività didattica. Allo stesso tempo non sarebbe sufficiente essere un bravo architetto per essere abilitato così come non dovrebbe mai bastare uno solo (qualsiasi) di questi aspetti.
A questo punto mi domando altresì, e il tema non è di inferiore importanza: non sarebbe il caso di prevedere, così come giustamente è necessario fare per la patente di guida, un aggiornamento dell’abilitazione all’insegnamento? Non sarebbe logico rivalutare, chessò, ogni dieci anni, le abilitazioni e le posizioni assegnate all’interno dell’università in riferimento alla produzione scientifica dei membri strutturati? Perché viene il dubbio che vincere il concorso da ordinario in università significhi semplicemente “arrivare”, avere cioè il diritto di non fare più niente.
Proprio leggendo le sprezzanti valutazioni che questa commissione ha emesso nei confronti di centinaia di candidati, candidamente mi chiedo: se questi cinque docenti oggi dovessero essere rivalutati secondo i parametri utilizzati da essi stessi in questo concorso (vale a dire anche solo l’aver prodotto almeno otto pubblicazioni scientifiche negli “ultimi cinque anni solari e consecutivi precedenti la data di presentazione della domanda”, che raggiungano “risultati di rilevante qualità e originalità, tali da conferire una posizione riconosciuta nel panorama anche internazionale della ricerca”), siamo certi che verrebbe loro concessa l’abilitazione?
pubblicato su «Gizmo», 10 febbraio 2014