Il titolo della mostra, esposta in Triennale dal 13 settembre al 27 ottobre e curata da Roberto Cremascoli, è un’accoppiata che trasmette una sensazione di armonia e riporta la mente alla questione della poetica, in questo caso dell’architettura, e in particolare quella di Porto. Colpisce perché la “poetica” dell’architettura è un tema quasi dimenticato, sicuramente non contemporaneo, un tema che si riferisce a un modus operandi; non si tratta della scelta di uno stile o dell’utilizzo di un certo tipo di linguaggio, piuttosto vi è implicata la questione del metodo.
Praticare il mestiere dell’architetto a Porto non è come farlo in Italia: la differenza risiede nella dimostrata capacità degli architetti portoghesi di imporre la necessità del loro ruolo. Ciò, negli ultimi cinquant’anni in Portogallo, ha condotto verso il riconoscimento collettivo della specificità dell’architetto, della sua rilevanza e della sua rispettabilità. In Italia da almeno quarant’anni ciò non avviene più e per gli architetti è diventato estremamente difficoltoso costruire un proprio percorso e definire una propria linea. Forse è questa la ragione per cui in Portogallo gli architetti hanno avuto la possibilità, anche in questa fase globale di deterioramento dei mandati dell’architettura, di sviluppare una propria poetica. Essa, del resto, non si manifesta in un solo edificio, nel masterpiece dell’autore: piuttosto è il risultato di una ricerca, il frutto del tempo.
Il titolo della mostra non offre invece estremi temporali e prefigura un allestimento che idealmente si potrebbe immaginare strutturato intorno a due possibili temi: l’architettura di Porto o gli architetti di Porto. In verità Porto Poetic è una mostra dedicata agli architetti Àlvaro Siza ed Eduardo Souto De Moura, entrambi nati e formatisi a Porto.
La mostra è doverosa: i due architetti portoghesi, entrambi vinicitori dell’ambìto Pritzker Prize, hanno guidato un’intera generazione di giovani progettisti, i quali hanno in buona parte saputo riconoscere un mandato culturale che negli ultimi decenni ha contraddistinto l’architettura portoghese. Ai giovani allievi è riservato lo spazio centrale dell’esposizione, allestito malamente, nel quale sono disposti oggetti di design non facilmente attribuibili ai loro autori, mentre alle pareti sono appese alcune sgraziate tavole di progetti non altrettanto sgraziati.
I materiali che compongono la mostra sono costituiti da straordinari disegni di progetto, modelli principalmente in legno, fotografie d’autore, oggetti di design e innumerevoli video: video-interviste, video delle/nelle architetture, video di fotografie che si susseguono a raccontare edifici evidentemente non visitabili. Le opere sono narrate in maniera stupefacente dalle magnifiche fotografie di vari autori tra cui Gabriele Basilico e Giovanni Chiaramonte. È infatti nota la fotogenia dell’architettura portoghese, e proprio questa caratteristica la rende spesso incantevole agli occhi dei visitatori.
Il lasso temporale della mostra si concentra soprattutto nella più prossima contemporaneità, comprendendo però alcuni imprescindibili progetti della prima fase di Siza: la Piscina das Marés e la Casa de Chá, entrambe costruite tra la fine degli anni Cinquanta e l’inizio degli anni Sessanta a Leça da Palmeira, ancora prive di quei dettagli che saranno onnipresenti nelle opere successive di Siza ma già rappresentative di una sensibilità che l’architetto ha in seguito espresso lungo tutta la sua carriera.
Per giungere agli anni Novanta il passo è breve, quando i due allievi di Fernando Tavora (a cui invece la mostra fa cenno solo tra le righe di alcuni testi) hanno la possibilità di dimostrare le proprie capacità costruendo numerosi edifici anche fuori dal proprio paese. Con l’avvicinarsi al presente le opere raccontano di un progressivo affievolimento di quella poetica a cui si riferisce la mostra, poetica che nelle opere fino alla fine degli anni Novanta è invece in costante costruzione. Nei progetti realizzati all’estero, in particolare, si riscontra una sorta di “congelamento” di quella ricerca, che diventa spesso un gioco formalista e a tratti stilizzato.
Souto De Moura dimostra una grande capacità di spaziare nell’utilizzo dei materiali, alla ricerca del dettaglio perfetto, citando i suoi maestri senza inibizioni e riproponendo spesso alcune soluzioni che lo contraddistinguono; Siza si muove con molta grazia nell’ambito compositivo complessivo: i suoi edifici col passare il tempo diventano sempre più plastici. Spesso però, al crescere della “plasticità”, aumenta la ripetitività delle soluzioni di dettaglio che rendono i suoi edifici estremamente riconoscibili.
Non fosse così difficoltoso accedere ad alcune informazioni basilari (il luogo in cui sono collocate le opere esposte, ad esempio, è un dato spesso fastidiosamente assente), l’unico difetto “pratico” dell’allestimento sarebbe riscontrabile nella ridottissima dimensione delle didascalie: un “minimalismo” del tutto inopportuno, se intenzionale.
Incuriosisce infine l’assenza tra i responsabili della mostra di alcuni noti “cultori della materia” trattata, i quali avrebbero potuto offrire un contributo importante e approfondito potendosi avvalere di ricerche già avviate ormai da qualche decennio.
Porto Poetic è dunque un ottimo titolo. Forse però la mostra avrebbe meritato un’altrettanto ottima curatela.
pubblicato su «Doppiozero», ottobre 2013