Sabrina Puddu, Martino Tattara e Francesco Zuddas
Territori della conoscenza. Un progetto per Cagliari e la sua università
Quodlibet, Macerata 2017
Il progetto dello spazio universitario si presenta spesso come un mero tema “accademico”: è consuetudine per un laboratorio di progettazione architettonica chiedere ai propri studenti di immaginare soluzioni progettuali su un programma noto, come ampliamento della città, come espansione di edifici esistenti, come ristrutturazione di spazi vuoti, rifacendosi ad esempi storici o contemporanei su funzioni simili.
Esistono tuttavia alcune eccezioni in cui il progetto accademico può scaturire da un programma ambizioso, e diventare occasione per mettere a tema alcune questioni che vanno oltre allo spazio, oltre al programma “classico”, oltre alla richiesta di una capacità progettuale. Il laboratorio di tesi di Laurea Magistrale tenuto all’Università di Cagliari da Sabrina Puddu, Martino Tattara e Francesco Zuddas, e pubblicato nel volume Territori della conoscenza. Un progetto per Cagliari e la sua università, è appunto una di queste.
La produzione di ricerca all’interno dell’università nelle carriere degli studenti non laureati (ovvero esclusi i dottorandi) è ormai cosa rara nelle Scuole di Architettura. Da un lato si assiste a una progressiva riduzione della proporzione docenti-studenti dovuta ai limitati finanziamenti dell’università italiana, condizione che rende il rapporto tra le parti sempre più faticoso e che spesso costringe ad asciugare la didattica limitandola a programmi standard. Allo stesso tempo il coordinamento del lavoro degli studenti è difficoltoso, questo anche a causa della mole di studio a cui sono chiamati e che il più delle volte scoraggia i docenti dall’assegnare carichi ulteriori.
Questo volume contiene in tal senso un’esperienza piuttosto straordinaria per un laboratorio di progettazione in una Scuola di Architettura italiana. La pubblicazione non si presenta tanto come un prodotto accademico quanto piuttosto come il frutto di una ricerca importante – per certi versi essenziale – sulla condizione dell’università italiana dopo il Processo di Bologna del 1999, sullo spazio dell’università in relazione alla città, sul ruolo dell’istituzione universitaria nella società e nel futuro dei giovani, sul senso dell’insegnamento e dell’istruzione. Ed essendo un lavoro prodotto in università è estremamente interessante cercare di cogliere le relazioni interne tra i protagonisti di questa ricerca – docenti e studenti universitari – e l’istituzione che ha ospitato e finanziato tale ricerca – l’università stessa.
È particolarmente centrata la proposta di studiare lo spazio dell’università all’interno dell’università, mentre si vive l’università, in quanto offre la possibilità di mettere a tema moltissimi aspetti che richiedono agli studenti anzitutto la consapevolezza della loro stessa condizione. È l’occasione per confrontarsi con i propri bisogni di categoria, senza dover necessariamente interpretare quelli di un “cliente” altro da sé, o quelli solamente ipotizzabili di un utente generico. Lo studente è, in questa situazione, il committente e l’esecutore, colui che più di chiunque altro ha la potenzialità di comprendere ciò di cui necessita l’università oggi, colui a cui più dovrebbe stare a cuore il progetto di trasformazione del luogo in cui spende la maggior parte del proprio tempo.
Il lavoro svolto da alcuni studenti laureandi e coordinato da Puddu, Tattara e Zuddas, qui ben impaginato da Quodlibet, si sviluppa intorno a svariate tematiche in buona parte non strettamente attinenti alla questione architettonica. Il progetto per l’università di Cagliari viene affrontato attraverso l’esplorazione di un quadro d’insieme completo: storia, economia, politica, sociologia, e naturalmente architettura e urbanistica. Si domandano gli autori quale potrebbe essere il ruolo dell’architettura in una proposta di critica alle politiche neoliberiste che hanno caratterizzato gli ultimi vent’anni di istituzione accademica, e lo domandano agli studenti, proponendo loro di cercare insieme una risposta, di rimettere al centro del dibattito il tema dell’università e del suo progetto.
La città (di Cagliari in particolare, del mondo in generale) viene posta al centro della ricerca, nel tentativo di mettere a sistema, di alimentare reciprocamente, città e università, «tra conoscenza, produzione e vita sociale». L’ambizione del lavoro condotto ha come proprio fulcro il ripensamento del modello di sviluppo socio-economico nel quale viviamo, una rilettura dove l’istituzione universitaria si pone come riferimento essenziale, «luogo di formazione di una nuova coscienza collettiva e di avanzamento sociale», anche e soprattutto dal punto di vista urbano.
Dopo il Processo di Bologna, non solo il ruolo e il peso dell’università sono cambiati nel giro di pochi anni, ma anche – e di conseguenza – si è trasformato il ruolo e la definizione dello studente universitario. L’università è stata infatti sostanzialmente appiattita alla gestione degli aspetti economici: è sempre più evidente come essa tenda a porsi come un’erogatrice di servizi che associa gli studenti a clienti, in un modello aziendale piramidale. A partire dal nuovo secolo e attraverso le riforme attuate, l’università ha cominciato a operare secondo logiche e sistemi di produzione equiparando la conoscenza a qualsiasi altra merce.
Il volume presenta un excursus storico a partire dagli anni Cinquanta sulle ricerche architettoniche legate al progetto per lo spazio universitario, focalizzando l’attenzione sui progetti che hanno punteggiato il periodo di trasformazione dell’università prima e dopo le contestazioni studentesche. La forte crescita di immatricolazioni, e dunque la necessità di espansione delle strutture educative, fu uno dei sintomi più evidenti della nascita, alla fine degli anni Sessanta, della cultura post-fordista in cui ancora oggi ci troviamo. In Italia in particolare si trattava di un’opportunità senza precedenti per l’università, la quale avrebbe potuto, attraverso un progetto politico unitario, proporre una nuova idea di città, offrirsi come «luogo di sperimentazione per nuove spazialità», identificarsi come categoria spaziale specifica e concepita in forte interazione con lo sviluppo industriale.
Giancarlo De Carlo e Archizoom furono i protagonisti italiani di un dibattito che cercava di scongiurare i rischi di un’espansione incontrollata degli spazi universitari, rischi che in seguito si sono a tutti gli effetti concretizzati nel frazionamento e nell’atomizzazione «in parti sempre meno coerenti tra di loro e tenute insieme a stento da un complesso e ingombrante apparato burocratico». Triste constatare come alcune delle istanze progettuali de-istituzionalizzanti degli anni Sessanta e Settanta – istanze addirittura rivoluzionarie -, come l’informalità, la flessibilità, la collettività dell’apprendimento, siano state assorbite e neutralizzate dalle logiche di mercato.
Che fare dunque? Impossibile non considerare lo stato delle cose, sia del caso specifico di Cagliari, sia della situazione italiana generale, sia degli esempi europei. A un bel servizio fotografico di Stefano Graziani negli spazi dell’università sarda segue infatti una lettura constatativa di uno spazio che si presenta in tutta la sua genericità e la sua assenza di definizione. Cagliari viene assunta come caso studio che si caratterizza per la sua natura sfrangiata, «un insieme disarticolato di decisioni, ripensamenti, progetti di carta, realizzazioni frammentarie», specchio di una serie di avvenimenti a scala nazionale, regionale e locale.
I progetti degli studenti si avvalgono dunque di un apparato conoscitivo strutturato intorno a temi di natura politica, amministrativa, architettonica, sociologica, economica. La spinta progettuale propone un superamento della condizione di precarietà che caratterizza la vita di studenti e ricercatori e i risultati che ne conseguono diventano «parte di un nuovo progetto sociale».
Il lavoro si sviluppa su due scale di progettazione: la scala regionale e quella dello spazio domestico. Proprio questo secondo tema, seppur ingannevolmente “fuori traccia”, diventa occasione per affrontare dal punto di vista progettuale un tema “di categoria”: ragionare sulla residenza universitaria parificandola ad altre forme residenziali assistenzialiste pone gli studenti in una posizione di auto-lettura della propria condizione precaria. La residenza viene qui concepita come «un incubatore di socialità in vitro», come occasione per mettere a tema alcune importanti tematiche che lo studio Dogma – di cui Martino Tattara è socio con Pier Vittorio Aureli – affronta già da alcuni anni, anche attraverso il lavoro didattico. L’istanza di fondo è il riconoscimento di una sovrapposizione della sfera lavorativa con lo spazio domestico, dell’emergere di nuove forme produttive che si caratterizzano per l’assenza di uno spazio di riferimento specifico. L’opportunità, a fronte di questo scenario, potrebbe dunque essere quella di ripensare la distinzione tra privato e collettivo, provando a farli coesistere nello stesso luogo, garantendo che la condizione che oggi viviamo – dove la conoscenza è al servizio del capitalismo – «sia resa esplicita e non nascosta o tacitata dietro una facile, indolore, morbida flessibilità».
Si tratta dunque di un’esperienza significativa, per gli studenti che hanno affrontato i contenuti di questo lavoro e per i lettori che vi si relazioneranno. La ricerca non offre sconti rispetto al tema trattato: l’accademia emerge come la tipica istituzione pubblica italiana, «una pedina strumentalizzata e sfruttata dal potere politico e corporativo a livello locale e statale».
Difficile del resto non riconoscere l’università italiana come un crogiuolo di problemi irrisolti: un apparato burocratico infernale, una macchina da crediti e da piani di studio vincolati, un luogo i cui spazi sono spesso insignificanti; un impianto baronale, gerarchico, sovente non meritocratico; un prodotto mercificato alimentato dai sempre più implacabili ranking.
Tuttavia l’università è ancora in qualche modo il luogo in cui si possono produrre lavori come questo, e Territori della conoscenza – in quanto ricerca svolta proprioin università – sta forse a dimostrare che esiste ancora la possibilità di fare bene le cose, che l’insegnamento può anche essere «una pratica di didattica non riduttiva ma esplorativa».
pubblicato su «Gizmo», vol. 16, giugno 2017