La biblioteca per la Facoltà di Economia a Bologna, costruita tra il 1963 e il 1972 da Enzo Zacchiroli, è un esempio di architettura avanguardista che si colloca sapientemente nel suo momento storico. Il progetto attinge infatti dalla fase brutalista di Le Corbusier, ma anche evidentemente dalla sua successiva ripresa neo-brutalista inglese; un’opera che si inserisce inoltre nella felice stagione italiana di quel periodo, storicamente poco trattata, di un professionalismo colto e profondamente moderno.
Due edifici, collocati nella zona universitaria del centro storico e divisi da una piccola strada, si dispongono come una sorta di portale d’ingresso al nucleo centrale della città: da una parte la biblioteca, che completa l’isolato, dall’altro lato l’integrazione di un edificio ottocentesco danneggiato per il 70% dalle distruzioni belliche. Essi comunicano tra loro attraverso lo stesso linguaggio espressivo: cemento a vista contrassegnato da casserature molto venate (benché in origine il volume della biblioteca fosse previsto rivestito in pannelli di graniglia), copertura in rame, infissi in legno e alcuni dettagli in metallo scuro.
La biblioteca si caratterizza per il suo ampio e potente fronte principale cieco: Zacchiroli prende a riferimento la tradizione della storica città in cui lavora, la quale presenta diversi edifici non residenziali di varie epoche contraddistinti da ampie ed ermetiche superfici murarie. Il suo volume entra poi in relazione fisica con gli edifici che lo affiancano grazie all’allineamento del fronte alla cortina esistente – in altezza e profondità – creando una continuità visiva. L’architetto isola così dai rumori le sale di lettura, che pone invece sul retro, dedicando la parte anteriore che affaccia sulla via delle Belle Arti a ingresso e, nei piani superiori, a magazzino della biblioteca. Il fronte retrostante, marcatamente svuotato da ampie finestre a nastro, si apre invece su un piccolo giardino sul quale affacciano le sale studio, pensate in doppia altezza e sfalsate nei piani. La luce penetra sui tavoli in maniera decisa, filtrata dagli alberi e dalle persiane oggi provate dal tempo.
All’ingresso, il pavimento nero a bolli e le pareti in cemento a vista (a cui Zacchiroli dedica particolare attenzione nella posa dei casseri – orizzontali, verticali o in diagonale) distribuiscono alla sala periodici e al corpo scale. Un pessimo controsoffitto posticcio rovina oggi gli interni dell’edificio, nei quali però possiamo ancora felicemente ritrovare i pilastri rivestiti in lamelle di legno disposte verticalmente – che si ripetono in tutti i piani – e i magnifici serramenti in legno ancora originali.
Alcune soluzioni interessanti, come l’arretramento della soletta al primo piano e il conseguente ottenimento di una fascia a doppia altezza al piano terra, generano spazi, sebbene dimensionalmente limitati, caratterizzati da una densa complessità percettiva. All’ultimo piano l’illuminazione naturale proviene da una finestra a nastro posta sull’alzata che si crea in copertura grazie alla sua inclinazione verso il patio nel tratto finale: la sala di lettura ne ottiene una luce soffusa, ulteriormente ammorbidita dal rivestimento in legno della parte superiore delle pareti.
L’atteggiamento dell’autore di questo piccolo capolavoro architettonico rigetta ogni tipo di mimetismo e realizza una precisa dicotomia tra il vecchio e il nuovo: il cemento gli consente di armonizzarsi nel contesto storico collocandosi in una dimensione senza tempo, grazie alla sua potenza visiva ed essenzialità allo stesso tempo; la sapienza compositiva ne garantisce il riuscito innesto nel compatto tessuto bolognese; l’intuizione distributiva ne determina la buona funzionalità interna; l’attenzione ai dettagli ne impreziosisce il valore complessivo e lo inserisce a buon titolo nella memoria di quella fortunata stagione dell’architettura italiana.
pubblicato su «Abitare», novembre 2013